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.Solo dopo ho capito che due Otto Ore sono devastanti, ma in quel momento eromolto eccitato.La prima delle due trasferte in Giappone per correre la Otto Ore di Suzuka è statauna gita."La gita in Giappone", la chiamammo, io e i miei amici che hannopartecipato alla spedizione.È stata l'edizione del 2000, io avevo 21 anni, ed è stata la più devastante.Con mec'erano Uccio, Alby, il "Gabbia" e il mio fisioterapista Marco Montanari.Otto giorni di delirio, vissuti facendo soprattutto un grandissimo casino.E iniziataridendo, con l'entusiasmo della gita, ed è finita con una sbornia terrificante.Una cosatalmente pesante, che forse non sono mai stato così male in vita mia per una festa.Colpa dei piloti giapponesi.E anche nostra, naturalmente.La Honda mi ha assegnato Colin Edwards, come compagno di squadra.I test eranoandati bene: la VTR 1000 mi piaceva moltissimo.Io, che venivo dalla NSR 500, trovaiuna moto gustosa, docile, facile da guidare: andava dove volevo, faceva tutto quelloche le chiedevo.E derapava tanto, quindi mi ci divertivo un mondo.Alla partenza per la grande gita in Giappone, io mi sono autonominato "maestro".Avendo già frequentato quel Paese, perché avevo iniziato a correre lì nel 1996, avevodeciso di illustrare ai miei amici le mie precedenti esperienze.In primo luogo, citenevo a dimostrare come, e perché, il Giappone fosse così diverso dall'Italia.Peraiutarmi meglio, avevo stabilito di usare degli esempi pratici.Insomma, la nostra gita in Giappone è stata un esperimento sociologico.Volevo dimostrare, ad esempio, che popolo gentile, disponibile, rispettoso siaquello giapponese.E lo facevo in vari modi, stuzzicandoli: dare fastidio ai poverigiapponesi che lavoravano nell'hotel e nel circuito è diventato in breve tempo ilnostro divertimento preferito.«Siate disinvolti, fate un sorriso e tutto andrà bene» dicevo ai miei amici.Lorohanno imparato in fretta: salutavano tutti, con grandi sorrisi e molta cordialità, e inquesto modo sono rimasti una settimana nell'hotel del circuito completamente asbafo.In cinque in una camera: mangiando, dormendo, usando la piscina.Sempresenza pagare.In quegli anni eravamo davvero spudorati.Ci presentavamo a fare colazione, lamattina, senza tagliandino (il ta-gliandino è fondamentale, per i giapponesi.), senzafare la fila, sedendoci dove ci pareva.E questo destabilizzava i camerieri.Lo facevamo per vedere entro quanto tempo sarebbe arrivato qualcuno a buttarcifuori, oppure a menarci, che forse era ciò che ci meritavamo.Niente, non arrivavamai nessuno! Da veri giapponesi, valutando che noi eravamo ospiti della Honda,stavano lì, a guardarci, senza reagire.Un altro esperimento che giudicai interessante consisteva nel forzare il posto diblocco del circuito.Non avevo chiesto i pass.Ebbene sì, io ero il pilota ufficiale dellaHonda, nella pista di proprietà della Honda, eppure mi sono presentato, con i mieiamici, ai cancelli del circuito, senza un solo pass.Dentro la macchina eravamo in sette; siamo arrivati col motore in fuorigiri,sgommando, senza rispettare la fila, con i finestrini giù, urlando frasi irripetibili.«Vale, adesso s'incazzano» mi ha detto infatti Alby, davanti ai cancelli.«Allora non hai ancora capito» ho risposto.Ho inserito la prima, siamo partiti sgommando, forzando il posto di blocco.Enessuno ci è corso dietro!Era quello, il divertimento: approfittare del loro modo di fare gentile e rispettoso.Troppo rispettoso, tanto da dare persino fastidio.Stavano lì, attoniti: non reagivano,non sapevano cosa fare, perché non sono preparati a situazioni del genere, aincontrare dei pazzi come noi.Naturalmente, noi ne approfittavamo.Altro divertimento dell'epoca: il furto di piccoli oggetti nei negozietti del circuito.Prendevamo cose di scarso valore, naturalmente: macchinine, adesivi, gadget.Coseda pochi yen, insomma.Anche quello era una sorta di esperimento sociologico.Poiché in Giappone il furtopraticamente non esiste, è proprio un tipo di vizio che non c'è, per loro non erapensabile che uno rubasse qualcosa.Ci si può allora figurare come ci siamo rimastinoi italiani.Volevamo mettere alla prova la loro pazienza, il limite di sopportazione, ma allafine sono loro che hanno scoraggiato noi.Ci presentavamo alla cassa, mettevamo lecose in tasca guardandoli negli occhi, e quelli non dicevano niente.Sì, ci facevanoandare via così.Questo atteggiamento ci ha scoraggiato, così andava a finire che glirendevamo subito la merce, oppure decidevamo di pagarla.Poi, però, abbiamo capito che stavamo esagerando.È successo nel 2001.C'è stato, infatti, un segnale scaramantico.In quel Paese non avevo mai combinatoniente di buono, in gara: né con la 125 e la 250, né con la 500.E mi era andata maleanche la Otto Ore del 2000.«Proviamo a comportarci meglio» ci siamo detti, stabilendo che avremmo dovutodarci una calmata.«Per rispetto al Giappone, smettiamo di fare gli italiani!» abbiamo quindi deciso.Nel 2001 ho vinto il gran premio e la Otto Ore, quindi per scaramanzia nonabbiamo più potuto rubare niente.Così sono terminati i nostri esperimenti sociologici.La Otto Ore di Suzuka è estremamente dura.Non solo per la gara in sé.Per unpilota che corre il Mondiale si tratta di aggiungere tre trasferte molto lunghe efaticose a un calendario di impegni già enorme.Perché prima della gara devi andare a fare almeno due test, tra giugno e luglioperché la corsa si svolge in agosto, e nessuno ne ha mai molta voglia; perché questetrasferte coincidono col periodo estivo, e il Mondiale offre finalmente una pausa.Neavevo voglia, nel 2000.L'anno seguente ne ho avuta molto meno.La dimensione nella quale entri, alla Otto Ore, è surreale.È tutto completamentediverso da quello a cui un europeo è abituato [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]
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.Solo dopo ho capito che due Otto Ore sono devastanti, ma in quel momento eromolto eccitato.La prima delle due trasferte in Giappone per correre la Otto Ore di Suzuka è statauna gita."La gita in Giappone", la chiamammo, io e i miei amici che hannopartecipato alla spedizione.È stata l'edizione del 2000, io avevo 21 anni, ed è stata la più devastante.Con mec'erano Uccio, Alby, il "Gabbia" e il mio fisioterapista Marco Montanari.Otto giorni di delirio, vissuti facendo soprattutto un grandissimo casino.E iniziataridendo, con l'entusiasmo della gita, ed è finita con una sbornia terrificante.Una cosatalmente pesante, che forse non sono mai stato così male in vita mia per una festa.Colpa dei piloti giapponesi.E anche nostra, naturalmente.La Honda mi ha assegnato Colin Edwards, come compagno di squadra.I test eranoandati bene: la VTR 1000 mi piaceva moltissimo.Io, che venivo dalla NSR 500, trovaiuna moto gustosa, docile, facile da guidare: andava dove volevo, faceva tutto quelloche le chiedevo.E derapava tanto, quindi mi ci divertivo un mondo.Alla partenza per la grande gita in Giappone, io mi sono autonominato "maestro".Avendo già frequentato quel Paese, perché avevo iniziato a correre lì nel 1996, avevodeciso di illustrare ai miei amici le mie precedenti esperienze.In primo luogo, citenevo a dimostrare come, e perché, il Giappone fosse così diverso dall'Italia.Peraiutarmi meglio, avevo stabilito di usare degli esempi pratici.Insomma, la nostra gita in Giappone è stata un esperimento sociologico.Volevo dimostrare, ad esempio, che popolo gentile, disponibile, rispettoso siaquello giapponese.E lo facevo in vari modi, stuzzicandoli: dare fastidio ai poverigiapponesi che lavoravano nell'hotel e nel circuito è diventato in breve tempo ilnostro divertimento preferito.«Siate disinvolti, fate un sorriso e tutto andrà bene» dicevo ai miei amici.Lorohanno imparato in fretta: salutavano tutti, con grandi sorrisi e molta cordialità, e inquesto modo sono rimasti una settimana nell'hotel del circuito completamente asbafo.In cinque in una camera: mangiando, dormendo, usando la piscina.Sempresenza pagare.In quegli anni eravamo davvero spudorati.Ci presentavamo a fare colazione, lamattina, senza tagliandino (il ta-gliandino è fondamentale, per i giapponesi.), senzafare la fila, sedendoci dove ci pareva.E questo destabilizzava i camerieri.Lo facevamo per vedere entro quanto tempo sarebbe arrivato qualcuno a buttarcifuori, oppure a menarci, che forse era ciò che ci meritavamo.Niente, non arrivavamai nessuno! Da veri giapponesi, valutando che noi eravamo ospiti della Honda,stavano lì, a guardarci, senza reagire.Un altro esperimento che giudicai interessante consisteva nel forzare il posto diblocco del circuito.Non avevo chiesto i pass.Ebbene sì, io ero il pilota ufficiale dellaHonda, nella pista di proprietà della Honda, eppure mi sono presentato, con i mieiamici, ai cancelli del circuito, senza un solo pass.Dentro la macchina eravamo in sette; siamo arrivati col motore in fuorigiri,sgommando, senza rispettare la fila, con i finestrini giù, urlando frasi irripetibili.«Vale, adesso s'incazzano» mi ha detto infatti Alby, davanti ai cancelli.«Allora non hai ancora capito» ho risposto.Ho inserito la prima, siamo partiti sgommando, forzando il posto di blocco.Enessuno ci è corso dietro!Era quello, il divertimento: approfittare del loro modo di fare gentile e rispettoso.Troppo rispettoso, tanto da dare persino fastidio.Stavano lì, attoniti: non reagivano,non sapevano cosa fare, perché non sono preparati a situazioni del genere, aincontrare dei pazzi come noi.Naturalmente, noi ne approfittavamo.Altro divertimento dell'epoca: il furto di piccoli oggetti nei negozietti del circuito.Prendevamo cose di scarso valore, naturalmente: macchinine, adesivi, gadget.Coseda pochi yen, insomma.Anche quello era una sorta di esperimento sociologico.Poiché in Giappone il furtopraticamente non esiste, è proprio un tipo di vizio che non c'è, per loro non erapensabile che uno rubasse qualcosa.Ci si può allora figurare come ci siamo rimastinoi italiani.Volevamo mettere alla prova la loro pazienza, il limite di sopportazione, ma allafine sono loro che hanno scoraggiato noi.Ci presentavamo alla cassa, mettevamo lecose in tasca guardandoli negli occhi, e quelli non dicevano niente.Sì, ci facevanoandare via così.Questo atteggiamento ci ha scoraggiato, così andava a finire che glirendevamo subito la merce, oppure decidevamo di pagarla.Poi, però, abbiamo capito che stavamo esagerando.È successo nel 2001.C'è stato, infatti, un segnale scaramantico.In quel Paese non avevo mai combinatoniente di buono, in gara: né con la 125 e la 250, né con la 500.E mi era andata maleanche la Otto Ore del 2000.«Proviamo a comportarci meglio» ci siamo detti, stabilendo che avremmo dovutodarci una calmata.«Per rispetto al Giappone, smettiamo di fare gli italiani!» abbiamo quindi deciso.Nel 2001 ho vinto il gran premio e la Otto Ore, quindi per scaramanzia nonabbiamo più potuto rubare niente.Così sono terminati i nostri esperimenti sociologici.La Otto Ore di Suzuka è estremamente dura.Non solo per la gara in sé.Per unpilota che corre il Mondiale si tratta di aggiungere tre trasferte molto lunghe efaticose a un calendario di impegni già enorme.Perché prima della gara devi andare a fare almeno due test, tra giugno e luglioperché la corsa si svolge in agosto, e nessuno ne ha mai molta voglia; perché questetrasferte coincidono col periodo estivo, e il Mondiale offre finalmente una pausa.Neavevo voglia, nel 2000.L'anno seguente ne ho avuta molto meno.La dimensione nella quale entri, alla Otto Ore, è surreale.È tutto completamentediverso da quello a cui un europeo è abituato [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]